venerdì 6 febbraio 2009

Capitolo 3

“Ciò che mi chiedete è molto” disse, con un marcato accento del Sud, l’uomo alto e dal capo rasato. Scostò la tenda di seta uscendo sulla terrazza: trenta metri sotto la città brulicava di vita, una fitta rete di strade e vicoli si estendeva fin sopra i due promontori che racchiudevano la baia; alcune navi solcavano le placide acque della laguna.
“I mercenari che voi chiedete servono a Saàrna, giovane principe, il mio sovrano non acconsentirà a intraprendere una guerra per una faida che non ci riguarda”.
Ghared si infuriò con sé stesso. Non sarebbe neanche dovuto essere lì, a supplicare questo ipocrita.
“Primo Consigliere Musad, sappiamo entrambi che il reggente di questo regno è un ragazzino dissoluto senza spina dorsale. Siete voi, di fatto, a esercitare il potere. Nel nome dell’amicizia che ha sempre legato i nostri popoli vi chiedo di fare il possibile per aiutarmi. Quando avrò ottenuto ciò di cui mi hanno privato con l’assassinio sarete ricompensato, tutto il regno di Saàrna lo sarà, avete la mia parola”.
“La tua parola, principe? Quanti ti considerano ancora degno di questo titolo? Mi stai chiedendo di privare il mio regno di uomini, per combattere la tua guerra personale.” disse Musad lisciando il pizzo di barba sottile che pendeva dal suo mento.
“Ciononostante, forse posso fare qualcosa per la nave che mi hai chiesto. Nel frattempo rifletterò. I draghi potrebbero rivelarsi utili…la loro protezione potrebbe essere parte del compenso che spetterà al mio…al regno di Sua Eccellenza il mio signore. Ma ora vi prego di seguirmi, sarete affamato”.

C’era qualcosa di poco convincente in Musad, pensò Ghared mentre lo seguiva dentro la sontuosa stanza e poi lungo l’ampia scalinata che conduceva ai Giardini. Non si fidava di lui, ma non aveva avuto scelta. Era stato catturato da una pattuglia poco dopo il confine e aveva dovuto rivelare la sua identità prima che lo imprigionassero: lo avevano portato al cospetto di Musad, un uomo che aveva conosciuto tempo prima durante una missione diplomatica del padre. Non avrebbe accettato cibo né alloggio e sarebbe partito non appena ottenuta la nave: questi erano i pensieri di Ghared mentre attraversava i Giardini, la grande oasi verde attorno al palazzo reale, separata dal caos della città da una cinta muraria alta dieci piedi.
Si accorse che qualcosa non andava quando fu abbagliato da un riflesso tra i fitti rami di una siepe: uomini in armatura, almeno una decina, nascosti dietro le siepi e le colonne del parco; era circondato.
Si fermò mettendo mano alla spada: “Che cosa significa Musad?”
Le guardie di palazzo, in armatura e armate di picche, uscirono allo scoperto.
“Credevi davvero che mi sarei inimicato gli uomini dagli elmi di lupo? Colui che tu chiami Usurpatore sconfigge i draghi, e forse ha già terminato la sua impresa; tu prometti fantasie e leggende. Dimmi giovane principe, perché farsi proteggere dalla preda quando puoi avere il cacciatore dalla tua parte? La tua fuga termina qui. Catturatelo”.
Ghared sguainò la spada mentre le prime picche si abbattevano su di lui. Aveva già deciso di fuggire superando la cinta muraria, doveva solo arrivare alla fontana addossata alla parete che gli avrebbe permesso di scavalcare l’ostacolo.
Scartò bruscamente evitando le aste che si schiantarono al suolo, ne deviò un’altra con la spada, seguendone la lunghezza e arrivando fino al suo possessore: la lama penetrò con forza, poco sopra lo sterno. Estrasse la lama mentre il corpo crollava al suolo e una picca lo ferì alla spalla sinistra: tranciò in due l’asta e con il colpo successivo il braccio del soldato che la impugnava; i nemici esitarono di fronte alla violenza dei colpi di Ghared, che ne approfittò per infliggere un altro affondo letale prima lanciarsi di corsa attraverso i Giardini.

Sentiva la spalla pulsare quando si gettò oltre il muro, atterrando sul selciato. Davanti a lui dipartiva una strada affollata, a destra e a sinistra due guardie si stavano dirigendo velocemente verso di lui. Corse in mezzo alla folla, facendosi largo; salì su un carro spingendo a terra il conducente e aizzò il cavallo al galoppo iniziando una corsa vertiginosa per la strada. Mentre i passanti si scansavano e casse e barili esplodevano spargendo il loro contenuto per strada, si diresse verso la porta della città più vicina.
Il segnale di sbarrare le porte arrivò tardi e Ghared riuscì a oltrepassare il portale sotto una pioggia di frecce: era illeso ma il cavallo aveva un dardo conficcato nella parte alta della zampa posteriore. Voltandosi vide che era inseguito da un gruppo di cavalieri.
Decise di inoltrarsi nella vegetazione deviando bruscamente a sinistra. A quella velocità il carro era incontrollabile e andò a sbattere diverse volte contro gli alberi finché non si sfasciò, proiettando Ghared contro un tronco. Si alzò malamente, con un forte dolore al petto e la schiena ormai lorda del sangue perso dalla ferita alla spalla. Gli inseguitori erano in vista, molti, più di quanti potesse affrontarne in quelle condizioni e stavano avanzando a piedi.
Snudò la spada e si diresse nel folto della vegetazione, tranciando l’intrico dei rami delle piante che crescevano in quella calda regione. Fuggì, fino a quando non giunse a una parete rocciosa coperta di muschio da cui scorreva una piccola cascata, a formare una pozza d’acqua limpida; dietro di essa, una grotta si inoltrava nella parete.
Ghared decise di fermarsi, toccò con la fronte il simbolo reale sull’elsa della spada e aspettò. “Padre aiutami”
“AMNORATH!!” urlò, lanciando il grido di battaglia della sua dinastia.
Il primo soldato spuntò dagli alberi con un grido roco, il principe evitò il suo affondo e colpì tra spalla e collo dello sventurato. Raccolse la lancia del morto e la scagliò contro il successivo che colpito in pieno petto crollò con un gemito sommesso. Altri due spuntarono e si scagliarono su di lui: li abbatté meno rapidamente, venendo ferito alla coscia destra. Giunsero nuovi avversari e arretrato fino alla pozza d’acqua ora fronteggiava dieci uomini. Ferito e con la vista annebbiata, Ghared raccolse le forze per lanciare un’ultima volta il grido della sua stirpe: l’urlo tuonò con una potenza sorprendente, più simile a un ruggito, e l’aria vibrò della sua forza propagandolo e rendendolo terrificante. Il giovane principe crollò in ginocchio, osservando incredulo i soldati fuggire in preda al terrore. Non riusciva a capire, era stato il suo grido? Mentre le forze lo abbandonavano guardò il proprio riflesso nella pozza…non poteva essere...quello non era lui…era…
Cadde riverso, e tutto fu bianco.

Katya si ergeva maestosa, scrutando attraverso i rami per assicurarsi che fossero fuggiti. Chinò il capo verso il giovane valoroso. Era da quando aveva perso Kurgan e i piccoli che non sentiva una parola amica: il ragazzo aveva pronunciato l’espressione che suggellava il Legame di Sangue, motto della famiglia che un tempo regnava nella Grande Valle. Raccolse dolcemente il ragazzo ferito ed entrò nella caverna.

Alessandro Bertoni

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